UNA TRIBÙ, ECCO QUELLO CHE SONO

11.10.2025

"Una tribù, ecco quello che sono" testo, concept e regia di Jan Fabre - drammaturgia di Miet Martens - con Irene Urciuoli - visto il 10 ottobre al teatro Out Off - recensione a cura di Adelio Rigamonti

Irene Orciuoli
Irene Orciuoli

UNA MAGNIFICA ESPERIENZA SENSORIALE

… Recandomi a teatro (all'Aut Off) per assistere alla prima mondiale di "Una tribù, ecco quello che sono" del drammaturgo/performer belga Jan Fabre, la cara amica che mi accompagnava mi ha parlato di un recente suo cammino/passeggio in altura a strapiombo su valli conosciute, lungo, forse, un tracciato ferroviario in disuso obbligato per passaggi in buie strette gallerie. L'amica definiva tutto ciò una magnifica esperienza sensoriale. Senza volerlo introduceva entrambi nello spettacolo che da lì a poco ci avrebbe attraversato…

A luci accese e con il pubblico che prendeva posto, sul palco coperto da decine e decine di sacchetti a rete contenenti cipolle, altri sacchetti con medesimo contenuto appesi al soffitto, Irene Urciuoli, la magnifica interprete di una complessa pièce, se ne sta in un angolo a rammendare un velo color arancio; poco dopo inizia un farneticante monologo, ricco di ripetizioni e intervallato, fuori campo, dalla recitazione di alcuni ripetitivi brani in francese, non è dato sapere se a pronunciarli fosse lo stesso Fabre. Una pecca organizzativa è stata quella di non predisporre un necessario foglio di sala. Sul fondo si illumina una didascalia che precisa che l'opera è un omaggio a Antonin Artaud al quale l'accomuna il realizzare un teatro crudo, visionario, sciamanico.

Lo spettacolo "Una tribù, ecco quello che sono" di Jan Fabre segna un nuovo capitolo
nella ricerca teatrale del regista e artista belga, presentato al Teatro Out Off di Milano all'interno del festival "Jan Fabre e Mino Bertoldo: 40 anni di poesia della resistenza" (2025).
Fabre ci propone questo suo lavoro come fosse uno spettacolo rituale contemporaneo ricco di simboli, metamorfosi animalesche, sangue, nudità attorno alla bravura ipnotica di una straordinaria Irene Urcioli. Ciò che è andato in scena all'Out Off non è uno spettacolo di trama, ma una successione di immagini, gesti e suoni: un teatro rituale e sensoriale che affonda le radici nella poetica del corpo, della ripetizione e della resistenza fisica.

Il tutto gira attorno alla ricerca di un'appartenenza fuori dagli schemi delle istituzioni ma interiore, spirituale, creativa. Lo spelare, oltre allo spiaccicare e mangiare, cipolle mi è parso essere una sorta di ingresso di percorso resistenziale all'interno del proprio io in cui la crudeltà delle ripetizioni estreme dei gesti e delle parole diventano una sorta di rituale sacrificale che si conclude in una specie di rinascita nella consapevolezza, gridata forte più volte, che "la Rivoluzione sarà mentale o non sarà".

Alcuni riferimenti a Dio, che alle prime sembrano essere frutti di pura blasfemia, mi sembrano sottolineature necessarie per ricordarci che il corpo è l'unico spazio in cui il divino può manifestarsi e negarsi contemporaneamente.

Il linguaggio scenico di Fabre è radicale: alterna lentezze a esplosioni fisiche, luci forti e materiali simbolici (in questo caso: la cipolla)
L'azione non cerca di raccontare ma di evocare. L'uso del corpo di Irene Urciuoli è totale — un corpo che suda, resiste, offre se stesso come campo di battaglia poetico; un campo di battaglia in cui l'immaginazione è strumento vitale per sopravvivere all'appiattimento del mondo contemporaneo così ricco di imbrogli e inganni.

Molto probabilmente solo una splendida, e in grande lucentezza di forma, Irene Urciuoli poteva addossarsi il peso di un ruolo così pesante in cui il sacrificio assume concretezza esasperante entrando e uscendo visivamente e vocalmente da suggestive metamorfosi animalesche che sottolineano maggiormente come la performer usi ogni parte del suo corpo, con vibrazioni mimiche splendide, come linguaggio.

Non uno spettacolo da comprendere ma una magnifica esperienza sensoriale dalla quale farci attraversare come accaduto alla mia cara amica in un recente suo cammino/passeggio in altura a strapiombo su valli conosciute lungo, forse, un tracciato ferroviario in disuso obbligato per passaggi in buie strette gallerie.

Adelio Rigamonti