Un bés, Antonio Ligabue

07.11.2025

"Un bés, Antonio Ligabue" di e con Mario Perrotta - visto il 5 novembre al Teatro Menotti - recensione di Fabia Caporizzi

Mario Perrotta
Mario Perrotta

La straziante solitudine di Antonio Ligabue


Entra dalla platea, Ligabue, parlando in tedesco "Eins, zwei drei" e conta, maledice e implora baci vagando tra il pubblico. Incede con il passo e la postura di chi è stato piegato nell'anima e nel corpo, curvo e claudicante, vestendo un cappotto logoro e pietisce un bés, un bacio, a qualche spettatore guardandolo negli occhi da vicino. Dopo i silenzi, i rifiuti e gli imbarazzi degli astanti torna a elemosinare quel bacio mai ricevuto salendo sul palco e il monologo riparte come un fiume in piena in quella lingua mista fatta di italiano, parole in tedesco e dialetto emiliano. Narra compulsivamente, implora e scomunica tutti Ligabue, impersonato alla perfezione da Mario Perrotta, mentre disegna per tutto il tempo sulla scena, fatta solo di tre grandi tele dove prenderanno vita i personaggi-chiave della sua esistenza. Racconta, impreca e si confronta in un flusso di coscienza à rebours con la madre naturale, Elisabetta Costa, attraverso il ritratto che ne fa, a carboncino, nei primi minuti accanto a quello delle sue amate montagne svizzere dove crebbe da bambino. Denuncia che nacque il 18 dicembre 1899 l'Antonio, poi chiamato Toni, e maledice quei 13 giorni che lo separavano dal venire alla luce nel 1900. Sarebbe cresciuto dritto nel nuovo secolo, decreta il pittore invendo proprio contro colei che gli ha dato la vita e, nubile e povera, l'ha riconosciuto, lei sola - del padre non si sa nulla - e poi affidato, quando aveva nove mesi, a una coppia svizzero-tedesca, i Gobel. La disegna quella madre, Ligabue, la tocca, aggrappandosi a quella figura creata a carboncino, piangente, e la accusa. E poi ritrae anche la mutter, e si avvinghia anche a lei, Elise, e la respira, la sua mamma, quella che l'ha cresciuto e amato e che però, forse, pensando che prima o poi sarebbe riapparsa l'altra madre, non l'ha mai baciato. "Un bés mutter, deme un bés" - pietisce ogni volta Antonio, prima bambino poi ragazzo. "Un'altra volta" gli risponde sempre lei.  È un fiume che sgorga questo dolore e sa di sangue anche se non ci sono tagli, ferite esteriori, è dolore vivo che perfora anche le nostre membra di spettatori, scuote ogni cellula grazie a Perrotta che più che impersonare Ligabue diventa quel corpo e quell'anima: ne incarna la solitudine, la disperazione, la debolezza fisica e quella mentale, incarna quel dolore che si acuisce quando viene rinchiuso in manicomio, ricreato con finestre lugubri e pesanti che si rivelano girando i grandi pannelli montati su ruote su cui tratteggia senza posa. Incarna quel dolore e quella rabbia di un'anima potente e ribollente abbandonata e destinata a un'esistenza crudele, deportata prima negli istituti e poi lontano dalla sua Zurigo. Ligabue viene espulso dalla Svizzera e tradotto di forza in una terra a lui straniera proprio a seguito di una denuncia della sua mutter Elise dopo una lite furibonda. Antonio approda cos¡ a Gualtieri dove vive Elisabetta con il nuovo marito, il patrigno che l'ha riconosciuto, Bonfiglio Laccabue, che poi verrà accusato di aver avvelenato moglie e figli, ovvero la madre e i fratelli del giovane Antonio, durante uno dei suoi ricoveri. Toni non conosce nessuno, non parla la lingua , viene deriso e umiliato. Diventa lo scemo del villaggio, risponde con la sua arte ma quelli non lo lasciano in pace fino a che non fugge nei boschi: si autoesilia questa volta per allontanare quei personaggi, sedicenti normali, ritratti in tutta la loro stoltezza e ferocia sia a parole che sulle tele che scandiscono sul palco anche le tappe della vita diventando fondali di memoria. L'amore lo incontra a suo modo negli animali, Ligabue, ma la sua, per un decennio, è una vita durissima fatta di solitudine totale, al freddo e nei fienili. Trova infine un po' di calore grazie al pittore Marino Mazzacurati che lo fa dipingere nel suo studio dove Ligabue fa esplodere la sua arte con tutti i colori che non aveva a disposizione nel bosco. Qualcuno, finalmente, sembra apprezzare il suo talento. I suoi lavori, prima della sua morte, nel 1961, vengono messi in mostra a Roma. Ma Ligabue/Perrotta irride fino alla fine nel suo torrenziale monologo a piu voci (pluripremiato: Ubu, Hystrio e altri) anche galleristi e critici che invece di guardare i quadri guardano il suo bel completo e i suoi piedi nudi... e tutti quei compaesani che quando l'artista, dopo la morte, diventa celebre e ben quotato si pentono di aver buttato quei capolavori ceduti in cambio di un tozzo di pane. Perrotta dodici anni dopo il debutto di Un bés, il primo dei tre movimenti dedicati all'artista, restituisce con sempre maggiore maestria al Menotti la disperazione dell'uomo e la forza visionaria del pittore muovendosi sul confine tra dentro e fuori, normalità e follia e getta una luce impietosa sullo sguardo che il mondo rivolge al diverso. Un quadro furente e dolorosissimo, come quelli di Ligabue. In scena fino al 9. Da non perdere.

Fabia Caporizzi