Io sono un errore

25.10.2025

"Io sono un errore" di Jan Fabre - con Irene Urciuoli - Visto al teatro Out Off il 24 ottobre - recensione di Adelio Rigamonti

Irene Urciuoli
Irene Urciuoli

DA UN IO ISOLATO A UN IO INGLOBATO NELLA COLLETTIVITÀ

Non credo che ciò che leggerete qua di seguito, se avrete la bontà di farlo, possa definirsi una recensione dello spettacolo, penso piuttosto a un confronto, quasi di getto, tra il Fabre di ieri (1988) e il Fabre d'oggi.

Dopo aver visto "Io sono un errore" ho pensato che il vero errore sia stato nell'aver presentato prima un'opera del Fabre attuale e poi un Fabre del 1988. Pur avendoli visti, in tempi ravvicinati, entrambi, ma nell'ordine proposto dal Festival dedicato a Jan Fabre al Teatro Out Off, ho dovuto mettermi d'impegno per trovare tra i due testi, o meglio tra i due Fabre, una frattura fondamentale che non è solo drammaturgica ma quasi esclusivamente ontologica. Devo ammettere che non mi è stato  immediato il cogliere il passaggio da un io isolato e autarchico a un io che, pur restando Fabre, comincia a percepirsi come parte di un organismo più grande.

Io sono un errore (1988) è il manifesto di un artista che si fa carne del proprio delirio autoproclamandosi apostolo dell'imperfezione, l'artista che grida la sua differenza quasi fosse un dio ad annunciare la fine del mondo. Il testo è un monologo ossessivo, un'esplosione verbale dall'interno. Lo spettacolo/performance è, e doveva essere, un rito dell'egocentrismo.

"Io sono una tribù", invece, ci mostra un Fabre più maturo e, forse un poco inconsciamente, più umano. Nello spettacolo del Fabre d'oggi rimane e predomina la violenza estetica, ma diluita nel 'coro della collettività' e con quest'ultima condivide guai, guasti e 'condanne'.  Se in "Io sono un errore" il corpo è prigione, in "Io sono una tribù" diventa una sorta di campo di battaglia condiviso con gli altri. 

Il primo testo tratta dell'individualità, il secondo dell'appartenenza; non mi pare cosa da poco nel segnare mutamenti più ontologici che drammaturgici che permettono di concretizzarsi in qualcosa sicuramente di più politico. È come se Fabre, dopo avere indagato, in un certo senso esaurito, la propria solitudine, ne avesse estratto un linguaggio di condivisione.

In sostanza In "Io sono un errore", Fabre si ribella con forza al mondo; in "Io sono una tribù", accetta di farne parte, senza illusioni. Il primo è un atto di orgoglio, il secondo un atto di resistenza.

Se nel monologo Urciuoli incarnava il corpo perfetto dell'imperfezione, nella tribù il corpo si moltiplica, si sporca, si perde nella collettività. È un Fabre che smette di guardarsi allo specchio e inizia, finalmente (aggiungo io), a guardare gli altri.

 In Fabre, l'errore resta sacro; ma ora, in "Io sono una tribù", non è più soltanto suo.

Magnifico collante di entrambe le performances un'ottima Irene Urciuoli, che, per quel che ne so, mi pare l'unica attrice a essere in grado di calarsi nei personaggi e nei monologhi faticosi e contorti di Fabre. Brava davvero.

Adelio Rigamonti