I sette a Tebe
"I sette a Tebe" di Eschilo per la regia di Gabriele Vacis - con gli attori del PoEM - visto il 17 ottobre al Teatro Menotti - Recensione di Adelio Rigamonti

Quando il mito si specchia nel nostro presente
C'è un momento, poco dopo la metà dello spettacolo, in cui la scena sembra fendersi: le armi, quelle vere, quelle che riconosciamo dalle cronache e dai notiziari, affiorano accanto agli elmi di bronzo e alle corazze dei figli di Edipo. È allora che si capisce che Gabriele Vacis non ci sta raccontando semplicemente un mito antico, ma sta aprendo una ferita.
"I sette a Tebe" diventa così un rito civile e collettivo, un viaggio nel cuore del conflitto umano, là dove la guerra è insieme intima e universale. Vacis offre un testo con una leggerezza sapiente, restituendo al coro un ruolo centrale, mobile, vivo: un respiro comune che si fa ora racconto, ora domanda.
Gli attori, ognuno portatore di una propria esperienza, personale, spesso biografica, offrono al pubblico la verità spoglia dei propri vissuti. Le loro parole, intrecciate a Eschilo, diventano confessione, testimonianza, riflessione politica.
È in questo incrocio fra tragedia e contemporaneità che Vacis trova la sua forza poetica: l'antico non è più un reperto, ma un qualcosa che propone i guasti e gli ammaloramenti dell'oggi. Questo affiancare un "linguaggio matrice" con un "linguaggio satellite e attuale" mi è parso davvero geniale.
E poi, la caduta della quarta parete. Non una rottura, ma un abbraccio: il pubblico è chiamato, direi quasi con dolcezza oltre che immediatezza, a entrare nel cerchio. Le voci degli spettatori si mescolano alle voci del coro, in un gioco di rimandi che trasforma la platea in agorà. È un momento di rara bellezza, di grande efficacia di partecipazione sincera: lo spettatore non assiste, vive.
La regia di Vacis evita ogni compiacimento estetico. Tutto è essenziale, disarmato, e proprio per questo potentissimo. Le armi contemporanee, fucili, divise, metallo lucido, diventano simboli ambigui, immagini che pesano come memorie collettive. L'effetto è un cortocircuito visivo e morale che scuote, costringe a prendere posizione.
Non c'è pace a Tebe, come non c'è pace nel mondo. Ma in quel frammento di teatro, nella sospensione del tempo scenico, si apre una possibilità: quella di comprendere, di riconoscersi nell'altro. Da quel frammento teatrale mi è sembrato di cogliere un possente, definitivo invito alla speranza collettiva.
"I sette a Tebe" di Vacis è un atto d'amore per il teatro, quello che interroga, che non consola, che osa attraversare il presente senza paura. Un lavoro rigoroso e vibrante, capace di restituire al pubblico il senso più profondo della tragedia: non la rappresentazione del dolore, ma la condivisione del destino umano.
Adelio Rigamonti

