RECENSIONE/PICCOLO TEATRO PAOLO GRASSI (ptpg1)

06.10.2022

Recensione de LE MEMORIE DI IVAN KARAMAZOV  da F. Dostoevskij, visto il 5 ottobre; a cura di Adelio Rigamonti

ORSINI GIGANTEGGIA IN CIRCOLARI MEMORIE DI SOTTOSUOLO

Si entra in sala a sipario aperto e subito si è sopraffatti dalla pressante scenografia di Giacomo Andronico: un'aula di tribunale deserta, malmessa, impolverata, con evidenti sollecitazioni al funereo, alla morte. Carlo Pediani ha disegnato sapientemente le luci in modo da sottolineare questo aspetto. Tralascio di ricercare in quella splendida scena rimandi e suggestioni di altri allestimenti o film di successo più o meno recenti; ciò che mi basta è l'essere riuscito a immergere subito il pubblico nel recupero di sofferte memorie tutte tratte, rivisitate, "concluse" dal capolavoro di Dostoevskij I fratelli Karamazov.

Buio sul palco e in sala. Al riaccendersi delle luci lo scorrere lento di un telerio trasparente e nero scopre Umberto Orsini/Ivan Karamazov già lì seduto relegato di lato, ma esposto agli occhi del pubblico, che diviene ben presto, anche se inconsapevolmente, giudice per la terribile colpa che lo sovrasta: l'istigazione a uccidere il padre.

La prime parole dell'ottimo testo scritto dallo stesso Orsini in collaborazione con Luca Micheletti (i due hanno condiviso anche la regia) sono tratte dal Vangelo di Giovanni col passo del chicco di grano che rimane solo, se non muore, una volta caduto a terra. Qui prende inizio il monologo confessione (arringa e difesa al contempo) in un recupero circolare di memorie, che come le definisce Ivan sono memorie del suo personale sottosuolo. L'obiettivo immediato della confessione è la richiesta di attenzione alla corte "Reclamo il mio finale, voglio la mia sentenza".

Luciferino nel romanzo di Dostoevskij, con la continua sottolineatura della sua assoluta amoralità, Ivan lo è anche in questo spettacolo, sebbene prenda coscienza della responsabilità morale del parricidio. Responsabilità che unitamente al peso dell'età lo rende sconfitto pur rimanendo intatto il suo esasperato nichilismo e il suo essere fieramente ribelle.

Dal banco/sedia degli imputati alla monumentale impolverata cattedra il passo è breve così come tra difesa e accusa. Uno sgorgare senza pausa di ricordi e intensa è la memoria della discussione col padre e il fratello Alëša sull'esistenza di Dio e se Dio non esiste, come affermato da Ivan, qualunque cosa è permessa.

Uno dei momenti più intensi dello spettacolo è il dialogo con se stesso grazie a una macchina teatrale, anch'essa enorme, che rappresenta un complesso, intricato e improbabile fonografo che tra il vento che agita carte e neve copiosa gli ripropone discorsi di tempo addietro. E nel tempo quelle parole sono davvero lontane: le stesse pronunciate da Orsini nello sceneggiato Rai, regia di Bolchi, del 1969. Un momento di gran teatro con una assai pregevole operazione registica.

Altra trovata geniale è la riproposizione a un grande specchio, apparso al posto della tribuna del giudice, della narrazione più ricordata del testo originale e cioè il "Grande inquisitore" con tutto il soffocante peso dell'aver deciso la condanna al rogo di Cristo.

Il tutto termina con Ivan che raccoglie un libro da terra e rilegge il passo di Giovanni che aveva aperto lo spettacolo. Si chiude dunque il cerchio delle memorie di Ivan e se all'inizio poteva avere un senso di speranza qui, terminato il percorso personalissimo di memorie di sottosuolo, è il completamento dell'analisi di una irrimediabile sconfitta.

In questo circolare di memorie di sottosuolo troviamo l'impresa attoriale di un instancabile Umberto Orsini, che dall'alto della sua bravura, e della sua età (l'entusiasmante Orsini ha 88 anni!) e del suo lunghissimo rapporto con Ivan Karamazov, offre perle indimenticabili per chi abbia visto il suo spettacolo, che assolutamente non è da perdere.

Adelio Rigamonti